Santa Messa per l’inizio del triennio di preparazione al bicentenario di San Giuseppe B. Cottolengo

Piccola Casa della Divina Provvidenza di Torino

02-09-2024

 

La preparazione al Bicentenario è scandita da speranza, fede e carità. La prima tappa è in sintonia con il Giubileo che ci vuole tutti pellegrini di speranza.

Dopo trent’anni di vita nascosta, Gesù inizia il suo ministero con queste parole: Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio. Penso alla vita di San Giuseppe Benedetto Cottolengo. L’ispirazione carismatica gli cambia la vita a quarantun anni, quando era sacerdote da sedici anni e canonico del Corpus Domini da nove. Umanamente era un uomo arrivato: tranquillo, buono e caritatevole in giusta misura, confessore e predicatore colto e apprezzato. Eppure egli era inquieto: c’era in lui l’attesa di un di più, come un’aspirazione profonda a una vita più vera ed evangelica. Questa sua sana inquietudine ce lo fa sentire vicino. Egli provava ciò che anche noi proviamo e che papa Francesco descrive così: «Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé» (Spes non confundit, 1). Questa attesa, motore dell’esistenza, è lo spazio che il Creatore ha predisposto in ogni uomo per accogliere il Vangelo di Gesù e che, in chi già crede, diventa apertura alle sempre nuove chiamate di Dio alla santità.

Così è stato per il Cottolengo. Dopo lunghi anni di attesa e di fedele ordinarietà, la grazia di Dio gli apre il cuore mettendolo davanti al mistero doloroso della vita che nasce e di quella che muore in mezzo alla fredda indifferenza dei più, ma non di Dio. E Dio lo trasforma in strumento di una rivoluzione d’amore. «La grazia è fatta!» disse ai fedeli, precipitosamente convocati, in quella domenica benedetta. Era il 2 settembre 1827. Il Signore aveva risposto alla sua attesa. Gli restavano solo quindici anni di vita, ma furono tanto intensi da superare di gran lunga un’esistenza intera. Avrebbe potuto dire con San Paolo: Per grazia di Dio… sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me (1 Cor 15, 10). Davvero i tempi di Dio non sono i nostri tempi! Le sue vie sono così diverse dalle nostre (cfr Is 55, 8)!

Il Cottolengo ci insegna a coltivare le inquietudini del cuore, non seguendo le mode fluide del mondo, rimanendo, invece, dentro al sentiero sicuro tracciato dalla vita e dalla spiritualità della Chiesa, sapendo che Dio non illude e non delude quanti sperano in lui: Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita (Rm 5, 10).

Il Cottolengo ci insegna a guardare agli altri con gli occhi di Dio, non catalogandoli secondo i nostri schemi, ma a partire dalla speranza di vita che hanno nel cuore. Quell’attesa è la porta aperta a Cristo, per noi e per loro: «I poveri sono Gesù, non sono una sua immagine. Sono Gesù in persona e come tali bisogna servirli». La dedizione totale del Cottolengo ai poveri più poveri fluiva da questa certezza interiore. Per questo ogni vita veniva da lui rispettata e amata con quelle attenzioni che solo una madre o un padre affettuosi sanno dare, come solo Dio sa dare. Mi colpì, in una biografia letta anni fa, il fatto che nei conti dei primi anni ci fossero voci dedicate all’acquisto di vino e di cioccolatini, cose superflue per chi guarda alla vita degli altri con occhi manageriali, ma non per chi vi guarda con gli occhi di un padre di famiglia.

L’attenzione ai bisogni materiali non esauriva però la sua carità: «Se non diamo Dio, non diamo niente». Non basta riconoscere Gesù nel povero, bisogna che anche il povero possa conoscere Gesù. La carità cristiana mira a donare Cristo. Il Cottolengo non comprenderebbe certe esitazioni o certi distinguo del nostro operare che, in nome di una concezione ambigua della libertà, tende a separare carità e annuncio. Ripeterebbe con l’Apostolo: La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza.

Le opere della carità cristiana sono manifestazione dello Spirito e della potenza di Dio. Questo fu lo spirito che mosse San Giuseppe Benedetto Cottolengo a esercitare verso tutti la carità cristiana, riconoscendo in ogni uomo la grande dignità di figlio unico e irripetibile di Dio. Diceva in questo luogo papa Benedetto XVI: «Egli aveva compreso che chi è colpito dalla sofferenza e dal rifiuto tende a chiudersi e isolarsi e a manifestare sfiducia verso la vita stessa. Perciò il farsi carico di tante sofferenze umane significava, per il nostro Santo, creare relazioni di vicinanza affettiva, familiare e spontanea, dando vita a strutture che potessero favorire questa vicinanza, con quello stile di famiglia che continua ancora oggi».

L’augurio che mi sento di fare oggi a tutta la famiglia del Cottolengo e a tutti noi è che le parole di Paolo Caritas Christi urget nos  (2 Cor 5, 14) mettano radici profonde nel nostro cuore e portino fiori luminosi di annuncio e generosi frutti di carità, nello stile della vicinanza affettiva e familiare che fu di San Giuseppe Benedetto Cottolengo.

Deo gratias!

 

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