Cari fratelli e sorelle, fermiamo l’attenzione sul testo dell’Apocalisse.
Si aprì il tempio di Dio che è nel cielo e apparve nel tempio l’arca della sua alleanza. Le prime parole del brano liturgico sono la chiave di lettura della grandiosa e drammatica visione che segue. Appare l’arca della sua alleanza, la cifra della storia di Dio con l’umanità. Il progetto di Dio, fin dalla creazione, è di fare alleanza con gli uomini. L’arca richiama la fedeltà di Dio che ha sempre ricomposto le infedeltà umane. E questo, lo sappiamo bene, anche per esperienza personale!
Su questo sfondo, appare la donna vestita di sole, con la luna sotto i piedi e una corona di dodici stelle sul capo. È un segno: richiama l’amore di Dio che non esita a far nascere nella storia umana, minacciata dal Maligno, il suo Figlio, destinato a governare tutte le nazioni. La donna è insieme Maria e il popolo di Dio, la Chiesa. C’è un profondo legame tra le due, come si comprende bene a partire dal Vangelo di Giovanni: a Cana l’evangelista chiama Maria madre di Gesù e Gesù, da lei interpellato, la chiama donna, rinviando alla sua ora; quando poi l’ora arriva, la chiama ancora donna, affidandole i suoi discepoli. Maria, esercitando la sua maternità ecclesiale, diventa modello della Chiesa. La comunità cristiana si rispecchia in Lei: donna vestita di sole, cioè eletta e ricolmata di grazia; con la luna sotto i piedi, cioè destinata all’eternità di Dio; coronata di dodici stelle, già vittoriosa, in Cristo, sul peccato e sulla morte e, con Cristo, primizia del popolo finale di Dio, evocato dalle dodici tribù di Israele e dai dodici apostoli.
La Chiesa vede in Maria il suo presente e il suo futuro. Il suo presente è la maternità feconda e la lotta contro il principe del male, il suo futuro è la gloria. Ognuno di noi pensi concretamente alla propria comunità: famiglia, parrocchia, diocesi. Senza occhi di fede – gli occhi di Giovanni nell’Apocalisse – tutto si sbiadisce e perde di significato e consistenza.
La comunità cristiana esiste per generare il Cristo nel cuore e nella vita delle persone. Mi piace citare una parola del nostro Metropolita, l’Arcivescovo di Torino, che provoca un serio esame di coscienza circa la situazione in cui versano tante comunità: «Io credo che molti cristiani non sentano più l’urgenza o la bellezza di annunciare e testimoniare Gesù Cristo agli altri. Credo che in maniera sottile molti cristiani facciano proprio il nichilismo contemporaneo o, se volete, quella forma di nichilismo che è l’assoluto relax, il relativismo. Una cosa vale l’altra. Ma io non sto nella Chiesa e non sono cristiano se una cosa vale l’altra. Io sono cristiano perché credo fermissimamente ciò che dice Pietro nel libro degli Atti: che non c’è nessun altro nome in cui c’è salvezza, se non Gesù Cristo… per meno di questo io non riuscirei a essere cristiano» (Vita e Pensiero 3/2024, 92-93).
Ecco, cari amici, ci dobbiamo seriamente interrogare: crediamo fermissimamente che solo in Gesù l’umanità può essere salvata? Se sì, non possiamo tacere! E l’umanità ci sta a cuore come già a Gesù? Se sì, dobbiamo fare nostro il suo stile di vita e il suo pensiero nel rapporto con Dio e nel nostro modo di stare al mondo. Oggi si parla molto di profezia, ma la profezia cristiana non consiste – come a volte ci fa intendere certa comunicazione mondana – nel dire cose diverse dall’insegnamento della Chiesa o nel fare opere sociali generose, ma dissociate dall’adesione a Cristo e dall’annuncio di Lui. La profezia cristiana è amare il nostro mondo come lo ha amato Gesù: fare del bene a tutti, sempre richiamando la sorgente di quel bene, che non è il nostro buon cuore, ma l’amore di Dio. Questo non permette il relax assoluto, ci chiede invece di andare anche contro corrente, ad esempio su temi sensibili quali la difesa della vita, la giustizia sociale, l’affettività, la famiglia, la pace. Non si può essere profeti cristiani a compartimenti stagni, ma su tutta la linea. Per essere concreto: non si può richiamare il Vangelo per chiedere il rispetto della dignità dei poveri, dei detenuti, dei migranti e poi affermare che l’aborto è un diritto. Non si può difendere la vita del malato terminale e non fare nulla per stare vicino a chi soffre, per assicurargli la dignità della compagnia e per chiedere che gli siano riconosciute le cure di cui ha diritto. L’indifferenza si vince a trecentosessanta gradi o non si vince e l’impegno rischia di scadere da carità a ideologia. La lotta che si scatena nel cielo ci ricorda che il male non si vince con falsi irenismi e accomodamenti alla mentalità del mondo; esige invece il coraggio del combattimento spirituale nella propria vita personale per vincere dentro di noi il disordine delle passioni; esige ancora il coraggio della verità, dell’onestà e della carità nella vita sociale e nelle relazioni con gli altri.
Chiediamo a Maria, Assunta in cielo, occhi di fede e cuore e mente capaci di vincere le seduzioni del mondo per essere testimoni veraci dell’amore di Dio!